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“La ragazza del treno” seconda parte

Dunque dove eravamo rimasti…
Altra stazione, altri passeggeri. Stavolta il posto accanto al mio viene occupato. Una bella ragazza, zaino, trolley, immagino sia un’universitaria. La osservo: forse ha passato il fine settimana dai suoi, e ora torna a Bologna; forse frequenta lì. Continuo a leggere, ma con la coda dell’occhio seguo i suoi movimenti, e tremo: sta estraendo dalla borsa… il telefono cellulare, e digita quello che sarà uno dei quattro numeri che intende chiamare da qui a Bologna. Non posso non ascoltare, ho indovinato. Parla a una compagna di università: deve raccontarle l’esame sostenuto qualche giorno fa, per filo e per segno. Attendo paziente che finisca, ignara del fatto che sarò costretta ad ascoltare quel racconto, riportato con la medesima accuratezza, per altre tre volte.
Quando finisce siamo ormai quasi a Bologna, io ho definitivamente abbandonato l’idea di trasportare la mia mente in Irlanda, anzi sono tornata nel pieno delle mie ansie universitarie e sto condividendo con la mia compagna di posto le incertezze e i dubbi che accompagnano la richiesta della tesi, la scelta del professore, la ricerca delle fonti.
Penso che ormai ci sia abbastanza per completare il viaggio e terminare la stesura del mio post, invece dal fondo del treno, in zona “Shrek”, un passeggero discute animatamente con il controllore, e si rifiuta di pagare una multa per non so quale sacrosanto,a suo dire, motivo.
I vapori delle acque termali si sono ormai dissolti, mi sento un misto tra la madre stressata di qualche anno fa, la studentessa agitata di qualche anno più qualche altro anno fa, e la ragazza del treno… Non la protagonista del best seller che occupa in queste settimane gli scaffali di tutte le librerie, ma quella che immagino io, una frequent traveller dei nostri nazionali vagoni che stremata, esasperata, stufa di questi ormai soliti, ma certamente non rispettosi comportamenti, abbandona la sua flemma e accidia, lascia sul sedile la rassegnazione del pendolare, e ispirandosi solo un pochino al Micheal Douglas di “Un giorno di ordinaria follia”, comincia a inveire sui suoi compagni di viaggio, dando sfogo a un’aggressività insolita, gridando che non ne vuol sapere di esami di qualcun altro, di matrimoni e divorzi di vip; urla inoltre che Shrek terzo l’ha visto otto volte, e che vorrebbe solo un po’ di pace, qualche minuto di silenzio, vorrebbe essere trasportata in Irlanda e restarci fino all’arrivo a Bologna, quando scenderà da questo folle vagone, e con un misto di speranza e agitazione salirà su un altro treno, dove troverà altre persone, altri cellulari che squilleranno, altre colonne sonore in viva voce, altra stravagante, imprevedibile umanità.
Arriviamo a Bologna, aspetto seduta che la fila di persone si dissolva per poter scendere: due occhi mi catturano, mi trascinano di nuovo nella realtà e mi scrutano: appartengono a un volto incastonato in una chioma riccioluta, che stringe a sè uno zainetto rosa, e si nasconde in parte dietro a un enorme pancione. Ecco a chi apparteneva la vocina stridula che faceva i capricci. Alzo gli occhi per osservare la madre: ha lo sguardo stanco, sembra esausta. Provo un moto di comprensione e tolleranza che dura lo spazio della mia attesa a Bologna.
Altro treno.  Stavolta ho un posto prenotato nella carrozza che garantisce silenzio.
Partiamo da Bologna, il vagone è pieno, ma almeno non vedo gruppi di chiassosi turisti nelle vicinanze, non dovrò ascoltare i dialoghi di un altro film, e il mio vicino di posto sonnecchia; tutto tace, o almeno ci prova. Decido di appisolarmi un po’ quando vengo svegliata all’improvviso: un telefono? Un passeggero turbolento? No, si tratta incredibilmente dell’annuncio in viva voice  dell’ultima promozione che invita i passeggeri ad acquistare non so quale tipo di abbonamento.
Mi guardo intorno e la cerco: la “mia” ragazza del treno è a bordo, mi guarda riflessa nel finestrino, vuole esplodere e mi incita a farlo.
La ignoro.Volto lo sguardo dall’altra parte, l’immagine sparisce insieme all’ennesima galleria, e io mi costringo a ripensare alle terme, al faccino pieno di ricci, alla mamma stanca e alle arzille signore.
Mi dico che in fondo va bene così, che tutto questo caos in fondo mi conferma che non sono solaal mondo. “Nessun uomo è un’isola” recitava John Donne. E’ vero e ne gioisco, se però le altre isolette dell’arcipelago non fossero così vicine…
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