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La meta o il viaggio

 

C’è stato un tempo in cui il
viaggio, per me, rivestiva la stessa importanza della mia destinazione finale. Passavo ore a fantasticare su
come avrei passato il tempo, cosa avrei visto, chi avrei incontrato.

 

La mia passione per il
volo faceva sì che scegliessi, deliberatamente, il più spesso possibile mete
raggiungibili solo in aereo.

 

Una volta a bordo osservavo
quelli che un giorno sarebbero diventati i miei colleghi, approfittavo di ogni
pretesto per rivolgere loro la parola, chiedere informazioni, consigli su quella
che un giorno sarebbe davvero diventata la mia professione.

 

Non meno interessanti erano i
viaggi programmati in treno: meno stressanti, sottoposti a regole meno restrittive, mi offrivano,
al contrario dell’aereo, la possibilità di osservare il mondo dal finestrino,
vederlo scorrere velocemente davanti a me, riflessa nel vetro, assorta e sognante. Scattavo migliaia di istantanee con gli occhi,
intrappolavo nella memoria campi di girasoli, distese enormi di terreni appena trebbiati,
balle di fieno pronte per l’inverno, appennini imbiancati dai quali facevano capolino villaggi-presepi. Se la destinazione era il luogo che mi aveva vista nascere e crescere, non avevo bisogno dell’annuncio del
comandante per accorgermi che ero vicina a casa: le colline, i pini, la
vegetazione tipica della campagna laziale mi salutavano idealmente dandomi il
“bentornata”.
Viaggio e meta ricoprivano per me la stessa importanza, mi regalavano uguali emozioni, mi permettevano di collezionare esperienze di vita.

 

I miei viaggi sono sempre
terminati con il raggiungimento della meta, arricchiti da incontri, movimentati
da inconvenienti, rovinati da ritardi, a volte iniziati con saluti struggenti, altre terminati con abbracci gioiosi.

 

Guardando le immagini del disastro
ferroviario di ieri continuo a chiedermi cosa stessero facendo quei viaggiatori
al momento dell’impatto: guardavano rapiti fuori dal finestrino, erano saliti
da poco e cercavano un posto a sedere, si preparavano a scendere alla fermata
successiva, quella che non hanno mai raggiunto. Chissà se tra loro c’era
qualcuno che ha rischiato di perdere il treno, ma poi, per un attimo ritenuto
fortuito, è riuscito a salire in tempo alla sua ultima fermata…
Anni fa, una giovane e ancora
sconosciuta Gwyneth Paltrow fu la protagonista di un film, “Sliding Doors”, che
purtroppo raramente viene riproposto in tv.

 

La giovane attrice perdeva la metropolitana,  le porte del vagone le si chiudevano davanti,
impedendole l’incontro con quello che sarebbe potuto diventare l’amore della sua vita.
Nello stesso film il regista riproponeva la scena rappresentando ciò che
sarebbe successo se invece la ragazza, quel treno, fosse riuscita a prenderlo.
Guardo le foto delle vittime, le immagino negli ultimi istanti. Penso ai sopravvissuti, a come debbano sentirsi, miracolati per aver cambiato posto, per essere saliti su un vagone piuttosto che un altro, mi immedesimo nei familiari: nella moglie rimasta in vacanza, che ha salutato il marito che rientrava al lavoro, salito su quel treno, diretto a nord e rimasto invece intrappolato nelle lamiere. Penso alla figlia del macchinista, ai bambini della passeggera pendolare, ai genitori dell’universitario, alla mamma di quel bimbo salvo, sopravvissuto tra le braccia della nonna, morta nell’incidente.
Mi sento sopravvissuta anche io, miracolata, scampata al dolore, privilegiata perché ho ancora la possibilità di vivere nuovi viaggi, raggiungere nuove mete, ma consapevole che non sempre possiamo decidere se saltare nel vagone, o lasciare che le porte scorrevoli si chiudano davanti a noi, precludendoci una possibilità, o forse regalandoci quella decisiva.

 

 

 

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