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Scrivere in punta di “penna”

La vita di William Stoner è quella di tanti: poche emozioni, tanti sacrifici, una grande passione, nel suo caso la letteratura. Per stesso dire del narratore, nelle prime righe del romanzo scopriamo che Stoner in vita non ha guadagnato molti ammiratori, e non ha lasciato che qualche debole segno del suo passaggio in questo mondo persino nell’università dove ha operato.

Eppure le pagine che seguono a questo non promettente inizio sono un susseguirsi di piccole perle di buona scrittura, caratterizzate da una delicatezza e da una pacatezza che, in modo quasi impercettibile, riescono a pungere con acume e ironia i personaggi meno gradevoli, o a spingerci alla compassione nel leggere le caratterizzazioni più fragili.

La citazione che ho scelto riguarda il rapporto complicato di Stoner con l’amore:

A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.

Aggiungo un estratto della postfazione di Peter Cameron all’edizione di Fazi Editore, che confessa una grande verità sull’arte di scrivere romanzi.

E la verità è che si possono scrivere dei pessimi romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe letteraria.

Condivido entrambi queste considerazioni, che faccio mie, mentre ripongo questo piccolo grande romanzo nella mia libreria e mi appresto a leggere un caso letterario di questa estate. Curiosi?

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