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Selfie time!

Ridatemi le vecchie macchine fotografiche: voglio provocarmi un attacco di sciatalgia mentre cerco di assumere posizioni da contorsionista per inquadrare la mia famiglia in posa davanti a un paesaggio pittoresco, voglio rischiare ogni possibile equilibrio del prezioso accessorio, sistemandolo sull’unico masso piatto e alto più di venti centimetri in un sito archeologico, per poi correre ad appostarmi nella perfetta inquadratura, fissare il puntino rosso lampeggiante, poi fisso, e poi sentire soltanto il click dello scatto, mentre la macchina cade rovinosamente diventando uno dei ruderi che sto visitando…..piangerò l’usura precoce del mio apparato fotografico, ma volete mettere il gusto nel rimirare l’autoscatto perfetto, se mai ce ne sarà uno, arrivata a casa?
Ormai siamo tutti vittime dei nostri smartphone, dipendenti da sindrome da paparazzo, pronti a fotografare ogni cosa e ad immortalarci in ogni circostanza: ieri nel mio telefono ho intrappolato, nell’ordine, i miei ciclamini, la parmigiana di melanzane (come mi è venuta bene!) e il contatore per spedire in diretta i dati di consumo caldaia all’ amministratore; come diceva qualcuno tempo fa su un social: ” quando c’erano i rullini e le foto si pagavano, col cavolo che si fotografavano gli antipasti al ristorante…” Parole sante! Il digitale ci ha portato il vantaggio di poter scegliere, selezionare, cestinare, ma ci ha anche tolto il gusto della ricerca del momento perfetto, del punto di osservazione ideale; lo scatto non serve più a immortalare l’attimo magico, né viviamo più l’attesa dello sviluppo del rullino…
Ricordo ancora quando spuntarono i primi negozi dove si pubblicizzava lo sviluppo in ventiquattro ore, addirittura un’ora: ricordate? L’emozione di ritrovare nel plico di foto il volto di qualcuno che avevamo lasciato in vacanza, o la celebrazione di una ricorrenza importante…
Ora vige l’abitudine del cotto e mangiato, e poi cestinato o archiviato, a seconda della riuscita del prodotto. Certo i vantaggi sono innumerevoli: per quanto mi riguarda, quello più apprezzato è il poter rivedere le foto ovunque e in ogni momento; e poterne scattare tante, tante, tante…
Quanto ai selfie, mi diverto a vedere la maggior parte del genere umano mentre si destreggia per realizzare l’ambito autoscatto: i più preparati hanno naturalmente il “selfie stick” e conseguente vita facile, pertanto non attirano la mia attenzione; i miei preferiti sono quelli che tentano,  in ogni modo possibile di tendere il braccio abbastanza da poter inquadrare entrambe le orecchie e anche il mento, e pur di riuscire fanno di tutto. Ma l’attimo di maggior intrattenimento è osservare i soggetti/oggetti della foto mentre cercano la posa migliore, e cominciano ad ammiccare al proprio telefono o, a seconda del destinatario della foto, a sorridere, fare linguacce, smorfie, occhiolini, non curandosi di chi sta loro accanto, pendolari in attesa del treno, vicini di sedile in aereo, professori appena entrati in classe.
La scena più indimenticabile mi è stata offerta ormai due mesi fa, in Grecia. Io e il mio compagno di viaggio e di vita ci trovavamo su una piccola imbarcazione con altri otto visitatori, convinti che operasse un servizio turistico per vedere le spiagge dell’isola dal privilegiato punto di osservazione del mare: dopo qualche minuto eravamo schiacciati da una moltitudine di bagnanti, decisamente troppi per la capienza della barca. In realtà, scoprivamo allora, questa specie di chiatta operava un servizio di taxi da una spiaggia all’altra, incurante di qualsiasi norma di sicurezza e inottemperante ai limiti di capacità del mezzo. Rasenti l’acqua, vedevamo precipitosamente il piacevole giro tramutarsi in un incubo, non riuscivamo a vedere le decantate spiagge, bianche, rosse, nere, occupati come eravamo a mantenere l’equilibrio e a cercare di ricordare se avevamo fatto testamento,  turbati, confusi, inc…ti …..  Ma lei no: una moretta, di origine anglosassone, che salita con noi non mostrava alcun segno di dispiacere, o risentimento, cercava solo di non perdere la posizione da lei giudicata migliore: seduta sulla prua della barca, ormai affollata di altri corpi sudati e impegnati ad aderire alla superficie come gechi su una parete, si lasciava scivolare, è il caso di dirlo, tutto di dosso, inseguiva  solo l’attimo perfetto: lei, il suo prendisole bianco, i grandi occhiali scuri sistemati sulla testa, a tenere a bada la chioma “accarezzata” dal vento; l’indomita, incurante del quasi naufragio di cui tutti eravamo ormai rassegnati a dover fare esperienza, tentava in ogni modo di restare immobile e scattava, scattava, scattava, e ad ogni scatto assumeva pose più provocanti, mandando baci al suo telefono, tirando indietro i capelli, inarcando la schiena, a scapito del passeggero last minute, salito al volo, e non è un eufemismo, e sfortunatamente capitato nel suo raggio di azione.

Fantastica, ammirevole, impassibile al corso degli eventi, dopo i quaranta minuti più lunghi della nostra vacanza, scendeva leggiadra dalla barca del terrore, soddisfatta del suo bottino digitale, e   mentre io rimettevo in ordine i pensieri, tenevo a bada i miei corti capelli, ritti sulla testa dallo spavento, lei si sistemava gli occhiali, la chioma (ancora in piega!!) e puntava la spiaggia, in cerca di nuove locations.

Mi è tornata in mente ieri: stazione, otto di mattina, soliti volti spenti rassegnati a un’altra giornata uguale alla precedente, distratti astanti in attesa del treno. Solo una pendolare sembrava essere felice: guardava il suo telefono, gli sorrideva, lo ha sollevato in posizione “selfie” e poi ha cominciato a mandargli baci. Terminato lo scatto è tornata ad assumere la posa degli altri, seria, distaccata, quasi altezzosa. Ho pensato al segnale acustico che qualcuno, in quel momento doveva aver ricevuto, seduto davanti a un caffè, oppure anch’egli in piedi sulla banchina di una stazione: doveva aver distrattamente guardato il telefono, e poi sorriso, felice di aver ricevuto un bacio “online”.

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